Nel regno animale l’egoismo è alla base del processo di selezione naturale.
Eppure
per alcune specie si realizza un paradosso evolutivo: si verificano comportamenti altruistici che impongono sacrifici personali in favore di altri individui.
Le marmotte fischiano per avvisare le loro simili di un pericolo, i bufali proteggono gli individui più giovani, gli elefanti quelli più deboli, i macachi devono urlare quando trovano il cibo per non essere considerati ingordi ed essere isolati dal gruppo.
Ma com’è possibile?
Se perfino a livello molecolare il DNA è composto da sequenze egoiste che si ripetono per portare avanti le proprie caratteristiche, come spieghiamo l’altruismo degli animali?
E in particolare,
come possiamo spiegare il comportamento delle api, emblema della cooperazione, della rinuncia alla prole e al nutrimento in favore di una sola regina?
Gli scienziati si sono applicati per trovare un nuovo modello che giustificasse la selezione positiva di queste forme di sacrificio e ciò che hanno scoperto è che vi sono due ragioni correlate.
La prima è la
selezione parentale. Questa teoria, detta anche
Kin Selection, formulata da Hamilton nel ‘64, afferma che la selezione naturale ha favorito l’evoluzione di comportamenti altruistici che permettono a individui dal patrimonio genetico simile di mettere a disposizione le proprie risorse per il beneficio dei propri parenti. In tal modo garantiscono ugualmente il passaggio dei propri geni alle generazioni successive.
Questo perché, come già spiegato nell’articolo “
Le api sono maschi o femmine?”, le api hanno un insolito sistema "aplodiploide" per determinare il sesso degli individui: gli ovuli non fecondati diventano maschi e gli ovuli fecondati femmine. La conseguenza di questa strutturazione genetica è che
le sorelle operaie condividono in media tutti i geni del padre e metà di quelli della madre, ed hanno così il 75% del corredo cromosomico in comune. Questo spiegherebbe perché, dal punto di vista evolutivo, ha più senso per loro trasmettere i propri geni aiutando la madre regina a produrre più sorelle, anziché riprodursi direttamente.
La seconda ragione ha meno a che fare con la genetica, e potremmo chiamarla:
l’imprevedibilità ambientale ed è stata studiata dai ricercato britannici Sumner e Kennedy.
Il modello di Hamilton aveva infatti un problema: ignorava che le variazioni casuali nell'ambiente rendessero molto volatile il numero effettivo di discendenti.
Quando le condizioni variano in maniera drastica (il cibo che scarseggia per un anno e quello dopo è abbondante, i parassiti delle nidiate che si diffondono, il clima che oscilla tra gli estremi) variano anche i benefici della cooperazione. Un parametro migliore per valutare la
fitness potrebbe quindi essere la varianza del numero di discendenti generati.
In un ambiente incerto, aiutare gli altri significa diversificare il rischio di una prole poco numerosa, e risulta perciò una strategia più attraente: migliora le probabilità che alcuni geni condivisi sopravvivano anche se la stirpe di un individuo muore. L'allocazione di un po' di energia nell’aiuto ad altri, anche a spese di un maggiore successo riproduttivo, funziona quindi da polizza assicurativa.
Da una parte questi due modelli creano dibattito, dall’altra gli scienziati si stanno applicando per integrare l’uno con l’altro e trovare finalmente una risposta definitiva a questo comportamento altruistico tanto affascinante quanto complesso.
Ma la vera domanda è: la scienza potrà mai essere definitiva?
Forse no, ed è questo il bello: il mondo delle api nasconde ancora tanti segreti da scoprire!